
Ogni giorno perdiamo un pezzo di democrazia, di giustizia, di credibilità, forse anche un pezzo di speranza.
E.
da "La Stampa" del 14/11/2008
articolo di ALESSANDRA PIERACCI
I pm Enrico Zucca e Francesco Cardona Albini avevano chiesto 28 condanne: in tutto 110 anni per la notte dei manganelli alla scuola Diaz, il 21 luglio del 2001, durante il G8. Il tribunale, presieduto da Gabrio Barone, dopo dieci ore e mezzo di camera di consiglio, ha condannato 13 imputati per un totale di 36 anni. Assolti tutti gli alti vertici della polizia, in particolare Francesco Gratteri, ex capo dello Sco e ora direttore dell’Anticrimine, Giovanni Luperi, ex vicedirettore Ucigos e oggi ai vertici dell’ex Sisde, perché il fatto non sussiste, e poi Gilberto Caldarozzi, ex vicedirettore promosso capo dello Sco, Spartaco Mortola, ex dirigente della Digos di Genova ora questore vicario a Torino.
Assolto perché il fatto non sussiste anche Massimo Nucera, l’agente accusato di aver simulato un’aggressione con coltello: può riavere il corpetto e la giacca che erano stati sottoposti alle verifiche del Ris dei carabinieri. Alla lettura del verdetto, nell’aula si scatena la protesta, con urla di «Vergogna, vergogna». «Accettiamo» è il lapidario commento del pm Zucca. «Non entro nel merito della decisione dei giudici - dice la sindaco Marta Vincenzi - ma alla luce di questa sentenza ora occorre una commissione d’inchiesta parlamentare». Sdegnato il presidente della Regione, Claudio Burlando: «Ci si interroga su come un fatto così grave possa essere avvenuto senza indicazioni dai livelli superiori quanto meno chiamati a una doverosa vigilanza».


Quella notte, 30 ore dopo la morte di Carlo Giuliani in piazza Alimonda, gli agenti del settimo nucleo, seguiti da poliziotti di altri reparti, fecero irruzione nella scuola Diaz di via Cesare Battisti e nell’adiacente scuola Pascoli, sede del centro media del Genoa Social Forum. Gli agenti entrarono abbattendo il cancello con un blindato e poi fecero irruzione all’interno dei locali sferrando manganellate. A nulla valsero le grida, le mani alzate, le richieste di aiuto. Un poliziotto mimò un atto sessuale davanti a una ragazza a terra con la testa spaccata, un altro guppo di agenti fece volare in aria a calci il giornalista inglese Mark Covell. Per giustificare l’irruzione, seguita a due riunioni in questura, fu verbalizzato un presunto attacco a una colonna di mezzi della polizia, che transitavano in zona, e successivamente un presunto lancio di oggetti dalle finestre della scuola. Poi, davanti alle decine di feriti e alle chiazze di sangue che imbrattavano la palestra, la violenza fu fatta passare come risposta a una altrettanto violenta resistenza, fatta provare da quelle due molotov poi distrutte mentre erano conservate in questura.
da "La Stampa" del 14/11/2008
PAOLO COLONNELLO
C’è Mark Covell, il giornalista inglese, che trema impercettibilmente e pensa alla sua milza che non c'è più, ai denti tutti rotti, ai polmoni danneggiati, al coma durato settimane e intanto gli occhi si riempiono di lacrime. C'è Lena, senza più un polmone che guarda fissa davanti a sè e chiede in tedesco spiegazioni a chi non la può capire. C'è Daniel che si massaggia le cicatrici sulla testa e ammutolisce. C'è la mamma di Sara che sussulta a ogni nome, a ogni assoluzione, come se ogni volta calasse di nuovo il manganello sulla testa di sua figlia, "desaparecida" nella notte della democrazia alla scuola Diaz.
Una notte italiana, di quelle che non si dimenticano, anche se i giudici fissano sulla carta alle 21 una sentenza che morirà nei pochi mesi che rimangono alla prescrizione (21 gennaio) e che dichiara assolti i vertici della Polizia, trascinati su un banco degli imputati sul quale non hanno mai voluto sedersi. Assolti in mancanza di prove certe. Oppure assolti per non aver commesso il fatto. Comunque assolti anche contro ogni speranza delle giovani carni offese che qui adesso urlano con tutto il fiato in gola: «Vergogna, vergogna!». Pagheranno soltanto gli uomini della truppa, i picchiatori, quei pochi individuati tra mille difficoltà, depistaggi, omertà nella massa degli agenti travisati che fecero irruzione alla Diaz la sera del 21 luglio 2001.
E pagheranno solo virtualmente, visto che le pene verranno interamente condonate o, appunto, molto presto prescritte. Ma come per il «lager» di Bolzaneto, anche per il massacro della Diaz le attese e le aspettative erano superiori alla realtà, che è fatta di codici, di leggi, di prove, di responsabilità personali. E non consola, non lenisce dolori e sofferenze. Ed è una realtà dove raramente la giustizia riesce a coincidere con la storia, quella dei fatti immortalati dalle mille riprese digitali del G8 di Genova, dei denti rimasti sui pavimenti della palestra, del sangue che dipingeva le pareti. Perché la storia ha più a che fare con la politica che con la giustizia ed è da lì che dovevano arrivare risposte, come al solito assenti. Così alla fine rimane un'altra occasione mancata e una figura davvero brutta, anche a livello internazionale, delle nostre forze dell'ordine.
Dimostrare il teorema, come voleva l'accusa, di «un unico disegno criminoso» nell'atteggiamento animalesco dei 200 poliziotti che irruppero come belve assetate di sangue nei saloni della scuola Diaz, era impresa quasi impossibile. Perché avrebbe richiesto la presenza di un mandante da individuare ben al di sopra degli stessi vertici della polizia. I quali, vedi le dichiarazioni di Giovanni Luperi o Francesco Gratteri - i due vice capi della polizia presenti sul campo - si sono ben guardati dal chiamare in causa qualcuno. Basti la risposta surreale, eppure così significativa, resa da Luperi (attuale capo dell'Ais, ex Sisde) nel corso di alcune «dichiarazioni spontanee» al processo, sottratte cioè all'esame dei pm: «Quella sera io stavo pensando dove portare a cena i miei colleghi...».

I ragazzi e le ragazze che uscirono sanguinanti da quella macelleria messicana - per dirla con le parole di Michelangelo Fournier, vicequestore - ora affollano la parte riservata al pubblico di quest'aula che somiglia a un cinema e dove per 4 anni è stato proiettato sempre lo stesso film: quello della commedia degli equivoci, dei non ricordo, delle omissioni, delle prove scomparse, come le due molotov disintegrate in chissà quale ufficio della questura genovese. Una folla che cresce mano a mano che la cancelleria rimanda l'ora della sentenza e che a un certo punto mette insieme il sindaco Marta Vincenzi e il presidente del tribunale dei minori Adriano Sansa, la mamma di Carlo Giuliani, Haidi, e l'ex leader no global Vittorio Agnoletto. Pensionati e fantasmi. Tutti in cerca di una risposta che la sentenza letta dal presidente Gabrio Barone non darà. Dice il berlinese Daniel Thomas Albrecht, 29 anni, primo della lunga lista di vittime: «Del poliziotto che mi colpì fino a farmi svenire ricordo bene una cosa: gli occhi pieni di odio. L'odio disumano di chi non capisce nemmeno che sta facendo».

2 commenti:
democrazia è anche accettare che i giudici ti diano torto.
non accettare tutto ciò è imporre la propria visione è dittatura o la volontà di essa.
riguardo al G8 posso solo dire che alla DIaz i poliziotti presenti si presero una vergognosa rivincita sui facinorosi che in quei giorni li assaltavano per le strade.
nunziocrociato
Il fatto di non essere d'accordo con la sentenza, con l'indulto o con i termini di prescrizione mi pare una libertà di pensiero. La giustizia non è infallibile e in Italia fa acqua da tutte le parti. Se hai un processo in corso lo sai.
Democrazia non significa omologazione forzata al pensiero dominante, quello è il gregge al pascolo. Ricordo che i lemming si suicidano tutti allegramente insieme eppure nessuno li costringe.Ma anche quella non è democrazia.
Infine, a Genova come a Venaus, se ci fossi stato la tua opinione sarebbe molto diversa.
E .
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