da La Stampa, 29/11/08 - MASSIMO GRAMELLINI | |
Spero di non sconvolgere nessuno rivelando che «La cura» di Franco Battiato, giustamente considerata da tutti (anche da Celentano che l’ha appena inserita nel suo nuovo album) una delle più belle canzoni d’amore di ogni epoca, è dedicata a una persona che ciascuno di noi conosce o crede di conoscere piuttosto bene. Non esiste donna che, ascoltando i versi di quel capolavoro, non abbia sognato di incontrare un amante che, invece di parlarle affannosamente dei propri problemi, le sussurrasse protettivo all’orecchio: «Ti salverò da ogni malinconia, perché sei un essere speciale e io avrò cura di te». In effetti la canzone contiene una serie di promesse da far impallidire dieci campagne elettorali. Oltre a una serie di doni non irrilevanti che il protagonista si offre di portare in dote - il silenzio, la pazienza, le leggi del mondo - alla fortunata destinataria viene assicurato un servizio di pronto soccorso sui seguenti temi: paure, ipocondrie, turbamenti, ingiustizie, inganni, fallimenti, ossessioni, malattie e lotta all’invecchiamento. C’è da far innamorare di Battiato persino Berlusconi. Ma la verità, e magari per qualcuno sarà una sorpresa, è che in questa canzone l’artista catanese non si rivolge a una donna o a un altro essere umano, ma a colei a cui probabilmente già pensava Leonardo quando disegnò la Gioconda: la parte nascosta di se stesso. Perché solo chi riesce ad amarsi nel profondo, «superando le correnti gravitazionali», avrà poi la forza di scacciare l’egoismo e di amare veramente il suo prossimo. | |
29 novembre 2008
PER TE
14 novembre 2008
LA MATTANZA INFINITA
Ogni giorno perdiamo un pezzo di democrazia, di giustizia, di credibilità, forse anche un pezzo di speranza.
E.
da "La Stampa" del 14/11/2008
articolo di ALESSANDRA PIERACCI
I pm Enrico Zucca e Francesco Cardona Albini avevano chiesto 28 condanne: in tutto 110 anni per la notte dei manganelli alla scuola Diaz, il 21 luglio del 2001, durante il G8. Il tribunale, presieduto da Gabrio Barone, dopo dieci ore e mezzo di camera di consiglio, ha condannato 13 imputati per un totale di 36 anni. Assolti tutti gli alti vertici della polizia, in particolare Francesco Gratteri, ex capo dello Sco e ora direttore dell’Anticrimine, Giovanni Luperi, ex vicedirettore Ucigos e oggi ai vertici dell’ex Sisde, perché il fatto non sussiste, e poi Gilberto Caldarozzi, ex vicedirettore promosso capo dello Sco, Spartaco Mortola, ex dirigente della Digos di Genova ora questore vicario a Torino.
Assolto perché il fatto non sussiste anche Massimo Nucera, l’agente accusato di aver simulato un’aggressione con coltello: può riavere il corpetto e la giacca che erano stati sottoposti alle verifiche del Ris dei carabinieri. Alla lettura del verdetto, nell’aula si scatena la protesta, con urla di «Vergogna, vergogna». «Accettiamo» è il lapidario commento del pm Zucca. «Non entro nel merito della decisione dei giudici - dice la sindaco Marta Vincenzi - ma alla luce di questa sentenza ora occorre una commissione d’inchiesta parlamentare». Sdegnato il presidente della Regione, Claudio Burlando: «Ci si interroga su come un fatto così grave possa essere avvenuto senza indicazioni dai livelli superiori quanto meno chiamati a una doverosa vigilanza».
Dopo quattro anni e oltre 200 udienze, il processo che ha visto 29 imputati e 93 parti lese, tutti i no global picchiati o addirittura massacrati nel buio nella scuola di via Battisti adibita a dormitorio, ha visto respinta la teoria dell’accusa sulla responsabilità di una catena di comando rispetto alla brutale irruzione e soprattutto alla successiva costruzione delle false prove per accusare i feriti di resistenza: in particolare le due molotov sequestrate precedentemente in un’altra zona della città e poi introdotte alla Diaz, dopo «la macelleria messicana», come l’aveva definita uno degli imputati, Michelangelo Fournier, raccontando in aula quello che aveva visto. In sostanza, sono stati condannati il comandante del settimo nucleo del primo Reparto Mobile di Roma, Vincenzo Canterini, oggi all’Interpol di Bucarest, e i suoi uomini, tra vice e capisquadra.
Quattro anni la pena comminata a Canterini per lesioni e arresto illegale, tre anni ciascuno per Fabrizio Basili, Ciro Tucci, Carlo Lucaroni, Emiliano Zaccaria, Angelo Cenni, Fabrizio Ledoti, Pietro Stranieri e Vincenzo Compagnone, due anni per Michelangelo Fournier, un mese per Luigi Fazio, che dopo il G8 lasciò la polizia. Condannati per porto d’armi Pietro Troiani e Michele Burgio, ovvero gli uomini che portarono alla Diaz le molotov: il primo a tre anni, il secondo a due anni e mezzo, oltre a una multa di 650 euro. Sospensione condizionale della pena per Fournier, mentre, grazie all’indulto, quella inflitta a Canterini si riduce a tre anni, mentre viene interamente condonata a tutti gli altri. Nel 2009 scatterà la prescrizione. I risarcimenti alle parti lese vanno da un minimo di 5000 euro a un massimo di 50 mila. L’elenco degli assolti comprende, oltre ad Alfredo Fabbrocini per il quale l’assoluzione era stata chiesta dai pm, Filippo Ferri, Fabio Ciccimarra, Nando Dominici, Carlo di Sarro, Massimo Mazzoni, Renzo Cherchi, Davide Di Novi, Massimiliano Di Bernardini, Salvatore Gava.
Quella notte, 30 ore dopo la morte di Carlo Giuliani in piazza Alimonda, gli agenti del settimo nucleo, seguiti da poliziotti di altri reparti, fecero irruzione nella scuola Diaz di via Cesare Battisti e nell’adiacente scuola Pascoli, sede del centro media del Genoa Social Forum. Gli agenti entrarono abbattendo il cancello con un blindato e poi fecero irruzione all’interno dei locali sferrando manganellate. A nulla valsero le grida, le mani alzate, le richieste di aiuto. Un poliziotto mimò un atto sessuale davanti a una ragazza a terra con la testa spaccata, un altro guppo di agenti fece volare in aria a calci il giornalista inglese Mark Covell. Per giustificare l’irruzione, seguita a due riunioni in questura, fu verbalizzato un presunto attacco a una colonna di mezzi della polizia, che transitavano in zona, e successivamente un presunto lancio di oggetti dalle finestre della scuola. Poi, davanti alle decine di feriti e alle chiazze di sangue che imbrattavano la palestra, la violenza fu fatta passare come risposta a una altrettanto violenta resistenza, fatta provare da quelle due molotov poi distrutte mentre erano conservate in questura.
da "La Stampa" del 14/11/2008
PAOLO COLONNELLO
C’è Mark Covell, il giornalista inglese, che trema impercettibilmente e pensa alla sua milza che non c'è più, ai denti tutti rotti, ai polmoni danneggiati, al coma durato settimane e intanto gli occhi si riempiono di lacrime. C'è Lena, senza più un polmone che guarda fissa davanti a sè e chiede in tedesco spiegazioni a chi non la può capire. C'è Daniel che si massaggia le cicatrici sulla testa e ammutolisce. C'è la mamma di Sara che sussulta a ogni nome, a ogni assoluzione, come se ogni volta calasse di nuovo il manganello sulla testa di sua figlia, "desaparecida" nella notte della democrazia alla scuola Diaz.
Una notte italiana, di quelle che non si dimenticano, anche se i giudici fissano sulla carta alle 21 una sentenza che morirà nei pochi mesi che rimangono alla prescrizione (21 gennaio) e che dichiara assolti i vertici della Polizia, trascinati su un banco degli imputati sul quale non hanno mai voluto sedersi. Assolti in mancanza di prove certe. Oppure assolti per non aver commesso il fatto. Comunque assolti anche contro ogni speranza delle giovani carni offese che qui adesso urlano con tutto il fiato in gola: «Vergogna, vergogna!». Pagheranno soltanto gli uomini della truppa, i picchiatori, quei pochi individuati tra mille difficoltà, depistaggi, omertà nella massa degli agenti travisati che fecero irruzione alla Diaz la sera del 21 luglio 2001.
E pagheranno solo virtualmente, visto che le pene verranno interamente condonate o, appunto, molto presto prescritte. Ma come per il «lager» di Bolzaneto, anche per il massacro della Diaz le attese e le aspettative erano superiori alla realtà, che è fatta di codici, di leggi, di prove, di responsabilità personali. E non consola, non lenisce dolori e sofferenze. Ed è una realtà dove raramente la giustizia riesce a coincidere con la storia, quella dei fatti immortalati dalle mille riprese digitali del G8 di Genova, dei denti rimasti sui pavimenti della palestra, del sangue che dipingeva le pareti. Perché la storia ha più a che fare con la politica che con la giustizia ed è da lì che dovevano arrivare risposte, come al solito assenti. Così alla fine rimane un'altra occasione mancata e una figura davvero brutta, anche a livello internazionale, delle nostre forze dell'ordine.
Dimostrare il teorema, come voleva l'accusa, di «un unico disegno criminoso» nell'atteggiamento animalesco dei 200 poliziotti che irruppero come belve assetate di sangue nei saloni della scuola Diaz, era impresa quasi impossibile. Perché avrebbe richiesto la presenza di un mandante da individuare ben al di sopra degli stessi vertici della polizia. I quali, vedi le dichiarazioni di Giovanni Luperi o Francesco Gratteri - i due vice capi della polizia presenti sul campo - si sono ben guardati dal chiamare in causa qualcuno. Basti la risposta surreale, eppure così significativa, resa da Luperi (attuale capo dell'Ais, ex Sisde) nel corso di alcune «dichiarazioni spontanee» al processo, sottratte cioè all'esame dei pm: «Quella sera io stavo pensando dove portare a cena i miei colleghi...».
Luperi pensava alla cena quella sera, mentre 200 suoi agenti subordinati massacravano nella scuola di via Cesare Battisti una novantina di giovani inermi accusandoli ingiustamente prima di essere dei black block, poi di aver tentato di accoltellare un agente, infine di aver nascosto (ma in bella vista, giusto all'ingresso) due molotov. Per meglio dirla con le parole del capo d'imputazione firmato dai pm Enrico Zucca e Francesco Cardona Albini «personale della Polizia dello Stato non meglio identificato..con più azioni esecutive di un medesimo disegno criminoso..faceva irruzione in massa all'interno dell'edificio da perquisire, ove al loro sopraggiungere si trovavano ospitati gli occupanti e irrompevano, dapprima in gran parte in un ampio locale al piano terra, temporaneamente adibito a dormitorio..e in rapidissima successione si portavano ai piani superiori dell'edificio, raggiungendo altre persone ivi rifugiate..in ogni occasione colpendo con violenza le persone predette, tutte in palese atteggiamento di non offensività e di resa, in talune occasioni infierendo più volte sulle stesse già colpite a terra, sanguinanti e ferite, utilizzando i manganelli rispettivamente in dotazione o sferrando calci..».
I ragazzi e le ragazze che uscirono sanguinanti da quella macelleria messicana - per dirla con le parole di Michelangelo Fournier, vicequestore - ora affollano la parte riservata al pubblico di quest'aula che somiglia a un cinema e dove per 4 anni è stato proiettato sempre lo stesso film: quello della commedia degli equivoci, dei non ricordo, delle omissioni, delle prove scomparse, come le due molotov disintegrate in chissà quale ufficio della questura genovese. Una folla che cresce mano a mano che la cancelleria rimanda l'ora della sentenza e che a un certo punto mette insieme il sindaco Marta Vincenzi e il presidente del tribunale dei minori Adriano Sansa, la mamma di Carlo Giuliani, Haidi, e l'ex leader no global Vittorio Agnoletto. Pensionati e fantasmi. Tutti in cerca di una risposta che la sentenza letta dal presidente Gabrio Barone non darà. Dice il berlinese Daniel Thomas Albrecht, 29 anni, primo della lunga lista di vittime: «Del poliziotto che mi colpì fino a farmi svenire ricordo bene una cosa: gli occhi pieni di odio. L'odio disumano di chi non capisce nemmeno che sta facendo».
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